Il codice a barre

Cos’è il codice a barre?

Il codice a barre GS1 è un linguaggio globale per identificare informazioni sui prodotti. Il barcode è stato inventato per ridurre gli errori e per garantire la tracciabilità dei prodotti, permette di risalire a informazioni fondamentali come la marca, il tipo di prodotto e il prezzo. Ogni giorno nel mondo vengono letti più di cinque miliardi di codici. 

Il barcode GS1 più diffuso è formato da una serie numerica di 13 cifre, graficamente è tradotta in barre verticali, con spazi bianchi e barre nere, solitamente posizionato sull’etichetta del prodotto.

Come leggere e ottenere il codice a barre

Le prime 9 cifre indicano l’azienda a livello internazionale, le 3 cifre successive identificano il codice del prodotto e l’ultimo numero è di controllo, calcolata tramite algoritmo. 

Per ottenere il codice a barre o EAN bisogna iscriversi al sito che consente di avere il codice e una volta iscritto si riceverà: 

– Un file Excel con 1000 codici EAN univoci e autentici di 13 cifre

– Il numero d’identificazione dell’azienda valida nel mondo 

– Le credenziali per l’area privata nella quale registrare i prodotti e scaricare l’immagine grafica dei barcode EAN

I costi per ottenere i codici variano secondo il fatturato dell’azienda.

Il codice a barre può avere diverse grandezze:

  • Minime
  • Normali
  • Massime 

I colori del barcode possono variare, devono essere sempre scuri con sfondo bianco o rossastro, l’importante è che sia sempre leggibile. 

La storia del codice a barre:

Il 3 Aprile del 1973 i manager americani, Bernard Silver e Norman Joseph Woodland, sollecitati da un direttore di un supermercato decisero di utilizzare un codice comune che permettesse di identificare i prodotti. L’idea arrivò in spiaggia, Woodland inizia a disegnare sulla sabbia dei punti e delle linee orizzontali, prese dal codice Morse. Ovviamente da questo disegno non ne seguì subito il codice a barre che conosciamo oggi; prima si pensava che fosse meglio un disegno con cerchi concentrici, la leggibilità era migliore, ma alla fine ha vinto l’idea delle barre verticali. 

Il primo “beep” nella storia fu il 26 Giugno del 1974.

Il codice a barre è stato una delle più grandi invenzioni, grazie ad esso è possibile capire quanti e quali prodotti vengono acquistati; in questo modo si può affiliare il cliente e capire quindi le sue esigenze. 

Immaginiamo per un momento un mondo senza codici a barre GS1. Quanto sarebbero lunghe le code alle casse dei supermercati? Quanto sarebbe frustrante per i consumatori? Basta pensare a cosa succederebbe se per un solo giorno, al supermercato, gli scanner alle casse non funzionassero e gli addetti dovessero digitare a mano i numeri presenti sui barcode di ogni prodotto della spesa dei clienti.

 cit. Miguel Lopera, presidente e ceo GS1

FONTE: https://gs1it.org

Articolo scritto da: Elisa Simonetti

 

La “nuova ludicità”: quando gioco è sinonimo di lavoro

Se dico “ludico” a voi cosa viene in mente? 

Divertimento, svago, passatempo, immagino a grandi linee. Invece no. 

Oggi il ludico investe e pervade il quotidiano, ne è persino una chiave di lettura. Esso assume anche le caratteristiche del lavoro tanto che si parla di “sovrapposizione di tempi e spazi del gioco a tempi e spazi del lavoro”. Ma andiamo per gradi. 

“Nuova ludicità”

Peppino Ortoleva illustra un concetto chiave di quella che definisce “nuova ludicità”: il “semi-ludico”, prodotto della fusione di lavoro e tempo libero. Concetto che comporta la rinuncia all’idea di gioco come attività esclusivamente infantile. Perché? Perché come il lavoro anche il gioco richiede impegno, pone degli obiettivi e prevede ricompense per chi li raggiunge e penalità per chi trasgredisce le regole. A proposito di regole, nel gioco l’utente aderisce alle norme, le dinamiche e i valori che governano lo spazio d’azione; prende le distanze dalla realtà e sperimenta ruoli diversi. Più precisamente diremo che assume punti di vista “in sicurezza”, ad esempio può calarsi nelle vesti di un paracadutista e immaginare l’ebrezza di vagare nel vuoto senza il minimo rischio. In questo senso si attribuisce al gioco una “capacità simulativa”, dal momento in cui funge da palestra di vita. 

Inizialmente ho menzionato l’idea di giustapposizione di tempi e spazi del gioco a tempi e spazi del lavoro: pensiamo a quando apriamo e chiudiamo nei nostri computer delle finestre di gioco, così tecnologizzando le pause e i tempi morti. A ben rifletterci ci accorgiamo che molti oggetti ludici sono disegnati proprio per soddisfare esigenze di svago circoscritte e modulari, eppure finiscono per istituire nuovi spazi di gioco. Per non parlare del percorso inverso, cioè di quando il gioco si fa lavoro: ormai è prassi servirsi dei non-tempi (attesa del treno, viaggio, post pranzo/pre cena) per messaggiare, telefonare, inviare email, giocare ai videogame e tanto altro. Negandoci il riposo e applicandoci in attività mentali con costanza e dedizione, diamo un che di lavorativo a ciò che dovrebbe essere mero intrattenimento.  

Il tutto ha un’evidente implicazione, ossia l’attiva partecipazione dell’utente che non si esaurisce nella semplice fruizione del prodotto mediale ma si estende alla negoziazione delle regole di gioco. In altri termini non solo l’utente gioca, ma giocando reinterpreta le regole di gioco e ne modifica la struttura.

Un esempio:

Avete mai sentito parlare o avuto a che fare con un librogame? Per chi non vi fosse familiare, il gamebook è un libro stampato diviso in paragrafi molto brevi; al termine di ognuno il lettore/giocatore deve compiere una scelta e affrontare una prova; in base all’esito di questo momento interattivo la lettura proseguirà in un paragrafo o nell’altro, ergo gli esiti potenziali della storia sono molteplici.

La scelta del percorso di lettura, quindi, non solo determina l’interattività del prodotto mediale ma consente all’utente di alterarne la struttura indipendentemente dal volere dell’autore, la cui posizione si fa sempre più nebulosa. Da questo capiamo che un simile oggetto ibrido fornisce un’esperienza più ludica che letteraria sfruttando un supporto tradizionale qual è il libro stampato; inoltre capiamo, o meglio, confermiamo che ad oggi la situazione ludica è qualcosa di completamente negoziabile, con dei confini modulabili, e questa “negoziabilità” si deve al continuo emergere di nuove tipologie di gioco.

La ludicità non si può circoscrivere perché è un processo, una disposizione nei confronti delle cose: “ludicizzazione” non significa costruire delle cose ludiche, ma indurre dei processi ludici nel consumatore. Un consumatore che non solo fruisce ma costruisce contenuti: il cosiddetto “prosumer”.

Articolo scritto da: Federica Macchetti.

Gli YouTuber, le webstar che hanno fatto della passione una professione

 “E tu, cosa vuoi fare da grande?”

Il quesito da mille milioni di dollari, capace di innescare una profonda autoriflessione a cui nemmeno Freud sarebbe riuscito a portarvi.

Fino a non troppo tempo fa, quali sono state le professioni più ambite, quelle su cui fantasticare la notte prima di dormire? Probabilmente il dottore per il bambino ambizioso, l’artista per quello creativo, l’astronauta per quello romantico. Oggi, però, se provassimo a rivolgere questo interrogativo ai giovanissimi, molti risponderebbero candidamente “lo voglio diventare uno YouTuber”. Prima di cercare su Wikipedia il significato dell’astruso inglesismo, vediamo di fare chiarezza su questo fenomeno che ormai ha raggiunto una portata globale.

Professione YouTuber, le caratteristiche:

Partiamo dall’inizio. YouTube è una piattaforma web che consente di caricare, condividere e visualizzare video online. Lo YouTuber è chiunque produca dei video e li carica nella piattaforma.

Per diventare tale i prerequisiti di base non sono complessi da raggiungere: basta infatti essere in possesso di una telecamera, una connessione ad internet ed avere qualcosa di interessante di cui parlare o da insegnare. Coloro che da questa piattaforma hanno acquisito un discreto successo di pubblico e sono riusciti a fidelizzare la propria audience sono diventati cosiddetti influencer. Si tratta di un fenomeno impressionate se si considera la vastità del bacino d’utenza che questi ragazzi possono raggiungere. Solamente in Italia ad oggi si contano ventuno milioni di utenti, di cui il 39% ha un’età compresa tra i 18 e 34 anni.

Oggi quella dello YouTuber è non solo una passione ma una possibile professione, in un social network mondiale dove ogni minuto si caricano oltre 400 ore di video.

Dai video amatoriali… 

Veniamo ora ad analizzare più approfonditamente la questione.

Probabilmente il segreto del successo di uno YouTuber, innanzitutto, è la sua costante narrativizzazione della propria vita in maniera innovativa. Video dopo video, infatti, egli costruisce la storytelling dell’identità del personaggio che decide di interpretare. Nonostante su YouTube sia impossibile avere un rapporto diretto come quello in presenza, l’immediatezza che si riesce a trasmettere cattura l’attenzione della cosiddetta Generazione Z, che consuma questi prodotti audiovisivi in una cameretta identica a quella in cui gli YouTubers si truccano, giocano ai videogiochi, parlano della loro giornata. Come risultato, la freschezza delle modalità espressive riesce a coinvolgere il pubblico come pochi altri mezzi di comunicazione sono riusciti a fare.

… alla monetizzazione

È proprio l’interazione che si genera tra creator e iscritti a decretare l’ammontare del guadagno di ciascun canale. Maggiore è il numero di “mi piace” e commenti dell’utenza, maggiore sarà il numero di visualizzazioni totalizzate per ciascun video. A quel punto lo YouTuber può monetizzare le proprie produzioni originali tramite inserzioni pubblicitarie, dunque è pronto a riceverne i profitti. YouTube monetizza i contenuti dei suoi YouTuber tramite il CPM, ossia il costo per mille visualizzazioni o impression di un video. La cifra raggiunta corrisponde alla somma di denaro che gli sponsor danno a YouTube per visualizzare le loro pubblicità ogni 1000 video.

Per rendere questi complessi meccanismi il proprio pane quotidiano bisogna raggiungere livelli altissimi di popolarità, cosa che accade più difficilmente di quanto si pensi. Si tratta di una vera e propria giungla, soprattutto perché numerose ricerche dimostrano come il panorama sia estremamente polarizzato verso alcune grandi personalità. Comunque, il fatto che il numero di YouTubers professionisti è in costante crescita, fa ben sperare ai giovanissimi con cui si è aperto questo articolo.

Il caso PewDiePie, la webstar con numeri da capogiro

Ognuno di noi sarebbe disposto a mettere la mano sul fuoco sul fatto che purtroppo nella realtà le bacchette magiche non esistono, ma ogni certezza si sgretola di fronte al canale di questo ragazzo svedese, PewDiePie per gli amici virtuali. Alcune stime riportano che gli introiti annuali grazie al suo lavoro online ammontino a 11 milioni di dollari: non avete avuto un mancamento leggendo questa cifra?

Per la cerchia di amici più ristretti il suo vero nome è Felix Kjellberg, e con quasi 100 milioni di iscritti e più di 21 miliardi di visualizzazioni complessive dei suoi video è il più famoso YouTuber al mondo. L’audience da record gli ha permesso di firmare un contratto con la casa produttrice Maker Studios, di proprietà della Disney, ma il sogno si è infranto quando tra gli show prodotti dal ventisettenne sono apparsi almeno nove video antisemiti. Nonostante questi gravi avvenimenti, la sua fama da divo della piattaforma non accenna ad esaurirsi. A questo punto, una domanda sorge spontanea: quale tutorial avrà seguito step by step per diventare uno YouTuber così di successo?

Il caso YouTube Italia: lo “sconfinamento” nei media tradizionali e nuovi produttori del sistema

Spostandoci infine nel nostro paese, è interessante prendere in considerazione le riflessioni di Andrea Amato e Matteo Maffucci, autori del recente libro “Rivoluzione YouTuber”. Il volume si concentra sull’analisi di un fenomeno molto particolare, cioè il fatto che diversi YouTubers che un tempo furono i pionieri italiani della piattaforma, oggi siano approdati all’utilizzo di media per così dire tradizionali. Ad esempio Willwoosh, al secolo Guglielmo Scilla, che ha lavorato in televisione, radio e scritto libri; Frank Matano, che è stato conduttore de “Le Iene” e giudice in “Italia’s got Talent”; FaviJ TV, gamer che è stato anche protagonista di una pellicola cinematografica.

A quanto pare, a dispetto della popolarità online, i veri big di YouTube Italia si sentono probabilmente in dovere di “legittimare” in qualche modo il loro successo ottenuto con mezzi “anticonvenzionali” tramite i media più classici, dal libro alla scatola televisiva. Tutto ciò può realizzarsi grazie a nuove personalità, a cui Amato e Maffucci hanno dedicato parte delle pagine, ovvero veri cacciatori di talenti che diventano produttori del sistema: Francesco Facchinetti, Eugenio Scotto e  Luciano Massa, ad esempio, pur venendo da esperienze diverse hanno saputo selezionare giovani promesse all’interno del panorama online e a fare di esse i nuovi volti del futuro. Il loro compito è quello di guidare i migliori verso una maturità professionale e una carriera promettente, fino a ridisegnare il rapporto tra media, creators e casa di produzione, dunque i meccanismi di funzionamento interni dell’Industria YouTube.

Conclusioni

Nonostante trasformare la passione in una professione remunerativa sia un percorso in salita, la portata del fenomeno YouTubers in termini di valore economico è sicuramente indicativa di quanto ormai tutto ciò rappresenti il mondo del futuro. La nuova generazione continua a cercare la notorietà tramite l’intrattenimento prendendo a modello quelle webstar di caratura internazionale, e non, che oggi ci sembrano i detentori del futuro della comunicazione e, a quanto pare, anche dello spettacolo.

Dopotutto, come dice la profezia del visionario artista Andy Warhol «in futuro tutti saranno famosi per 15 minuti», solo che ci si augura che questi ragazzi si sentano delle celebrità per molto più tempo – quantomeno più della durata media di un video di YouTube.

 

Articolo scritto da Valeria Di Lorenzo.

 

« Votami perché parlo (male) come te »: dal ‘politichese’ al ‘gentese’

« È uno schifo, siamo stufi! »: così esordisce (o conclude) il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, nella maggior parte dei suoi discorsi. Come lui, molti altri protagonisti dello scenario politico sono soliti utilizzare un registro linguistico di basso livello, fatto di termini volgari ed espressioni scurrili. A che scopo?, ci si domanda. 

Nel suo saggio, “Volgare eloquenza”, Giuseppe Antonelli analizza i cambiamenti rintracciabili nella lingua della politica (o “politichese”) dalla prima alla terza Repubblica. L’autore sostiene che alla base ci sia un intento ben preciso: far leva sul rispecchiamento degli elettori che si ritrovano in chi parla sgrammaticato, triviale e per luoghi comuni. Così, cita Antonelli, « nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, in realtà lo si tratta come un popolo bue. » Eppure i destinatari sembrano apprezzare l’inedito “gentese” e il suo approccio lusinghiero, perché alimenta il loro narcisismo.

A chi si rivolge la comunicazione politica?

A proposito di destinatari, la comunicazione politica non si rivolge più a un preciso blocco sociale quanto al cosiddetto “italiano medio”: da qui la transizione dal politichese al sopracitato gentese, fatto di parole semplici e di concetti elementari, di parolacce, modi di dire ed espressioni dialettali. « Quel politico parla come me », deve pensare chi lo ascolta, « e io parlo come lui: dunque mi piace. »

Il passaggio dal paradigma della superiorità a quello del rispecchiamento ha portato con sé l’abbandono delle argomentazioni a favore delle emozioni. L’obiettivo è quello di « parlare alla pancia degli italiani », al loro istinto, ai loro sentimenti: il tutto attraverso la narrazione. Prendiamo una figura politica a caso, Renzi. Renzi non spiega, racconta. E racconta usando frasi brevi ed incisive, slogan d’impatto, aggettivi e giochi di parole che non richiedono un ampio background culturale. Spesso l’ex premier parla di una “rivoluzione”, che in realtà consiste nella banalizzazione della lingua e, di riflesso, della politica che comunica. Una politica che “va oltre”, al di là di ogni ideologia, e che predilige spiegare mediante una logica narrativa. 

Propaganda negativa

Un altro esempio, Beppe Grillo. I suoi discorsi sono impregnati di colloquialismi, dialetti vari, dell’uso rafforzativo di cazzo e nomignoli per riferirsi agli avversari politici. Quest’aggressività verbale ci introduce a un tema che toccherò solo trasversalmente, ed è quello della “propaganda negativa”: essa consiste nel denigrare l’avversario, azione che si riflette negativamente sull’emittente di comunicazione per quello che gli psicologi hanno chiamato “transfer of attitude recorsively”. Se parlo bene/male di qualcuno, la positività/negatività delle mie affermazioni si proietterà su di me.

Restando in tema, è bene menzionare un’altra recente scoperta degli studiosi ovvero che una discreta dose di aggressività (ben inteso nella comunicazione politica) porta gli elettori a credere che tutto sia ancora in gioco e che il loro voto sia determinante per l’esito delle elezioni. Questo li motiva a votare, cosa tutto fuorché scontata viste le alte percentuali di astensionismo, in Italia e non solo. 

Un voto ad oggi sempre più contaminato da aspetti personali e che prescindono dalla competenza del candidato. Questo a causa del crescente ruolo delle piattaforme social nell’instaurare un contatto diretto fra politico ed elettori: tale contatto favorisce il meccanismo di rispecchiamento sopracitato, ma soprattutto è reso possibile dalla “disintermediazione”.

Si tratta della graduale perdita d’importanza di quei corpi/organi chiamati a mediare la relazione fra politici e pubblico, il che ha un duplice risvolto: da un lato l’utente gode di un accesso diretto e costante alle informazioni; dall’altro il suo pensiero (tradotto in voto) è influenzato da aspetti legati alla vita privata del candidato più che alla sua credibilità. Ed è questa progressiva confidenza fra le due parti che provoca l’abbassamento del registro linguistico e l’impiego di espressioni volgari e sboccate.

È perciò evidente il circolo vizioso: il candidato influenza l’utente, l’utente influenza il candidato. Nel primo caso il risultato sta nell’accaparrarsi un voto, nel secondo sta nell’adottare un vocabolario rozzo e sgarbato. Come illustra chiaramente Antonelli, « Dal “Votami perché parlo meglio (e dunque ne so più) di te” si è passati al “Votami perché parlo (male) come te.” »

Articolo scritto da: Federica Macchetti